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L’altare della Vergine del Phileremo ed il culto alla Madonna Profuga nella Basilica Patriarcale di Santa Maria degli Angeli,

Assisi (Perugia)

 

 

 

«A lei perciò ci rivolgiamo: Santa Maria, tu appartenevi a quelle anime umili e grandi in Israele che, come Simeone, aspettavano “il conforto d'Israele” (Lc 2,25) e attendevano, come Anna, “la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38). Tu vivevi in intimo contatto con le Sacre Scritture di Israele, che parlavano della speranza – della promessa fatta ad Abramo ed alla sua discendenza (cfr Lc 1,55). Così comprendiamo il santo timore che ti assalì, quando l'angelo del Signore entrò nella tua camera e ti disse che tu avresti dato alla luce Colui che era la speranza di Israele e l'attesa del mondo. Per mezzo tuo, attraverso il tuo “sì”, la speranza dei millenni doveva diventare realtà, entrare in questo mondo e nella sua storia. Tu ti sei inchinata davanti alla grandezza di questo compito e hai detto “sì”: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38)»[1].

 

«Nelle feste c’è Lui.

Nelle vigilie, al centro, c’è Lei.

Discreta come brezza d’aprile che ti porta sul limitare di casa profumi di verbene, fiorite al di là della siepe.

Ci sono, a volte, degli attimi così densi di mistero, che si ha l’impressione di averli già sperimentati in altri stagioni della vita. E ci sono degli attimi così gonfi di presentimenti, che vengono vissuti come anticipazioni di beatitudini future.

Nel giorno del sabato santo, di questi attimi, ce n’è più di qualcuno. È come se cadessero d’improvviso gli argini che comprimono il presente. L’anima, allora, si dilata negli spazi retrostanti delle memorie. Oppure, allungandosi avanti, giunge a lambire le sponde dell’eterno rubandone i segreti, in rapidi acconti di felicità.

Come si spiega, infatti, se non con questo rimpatrio nel passato, il groppo di allusioni che, superata appena la “Parasceve”, si dipana al primo augurio di buona Pasqua, e si stempera in mille rigagnoli di ricordi, fluenti tra anse di gesti rituali?

La casa, vergine di lavacri, che profuma d’altri tempi. L’amico giunto dopo tanti anni, nei cui capelli già grigi ti attardi a scorgere reliquie d’infanzie comuni. Il dono opulento, là in cucina, tra le cui carte stagnole cerchi invano sapori di antiche sobrietà.., quando era viva lei, e la madia nascondeva solo stupori di uova colorate. Il grembo vuoto della chiesa, il cui silenzio trabocca di richiami, e dove nel vespro ti decidi finalmente a entrare, come una volta, per riconciliarti con Dio e sentirti restituire a innocenze perdute.

E come si spiega, se non col crollo delle dighe erette dai calendari terreni, quel sentimento pervasivo di pace che, nel sabato santo, almeno di sfuggita, irrompe dal futuro e ti interpella con strani interrogativi a cui senti già di poter dare risposte di gioia? [...]

E gli animali del bosco ululeranno i loro concerti mentre in chiesa si canta l’Exultet»[2].

Queste ampie citazioni introducono all’effige della Madonna di Tutte le Grazie -ai suoi moti interiori, alla fatica del vivere il giorno successivo alla crocifissione, alla disperazione di una Madre, alla desolazione dell’elaborazione di un lutto- custodita in terra umbra e proveniente dall’Isola di Rodi. Grazie a Padre Cesare Andolfi, francescano dell’Ordine Minore, la copia dell’icona della Vergine del Phileremo è stata munita di una sontuosa collocazione. L’effige mariana è dipinta a mezzobusto, in abito da “post passionem Filii” e cioè riproducente la Vergine Maria -la Madre di Dio- ritratta dopo la Morte del Figlio.

«Maria è grande proprio perché non vuole rendere grande se stessa, ma Dio. Ella è umile: non vuole essere nient'altro che l'ancella del Signore (cfr Lc 1, 38. 48). Ella sa di contribuire alla salvezza del mondo non compiendo una sua opera, ma solo mettendosi a piena disposizione delle iniziative di Dio. È una donna di speranza: solo perché crede alle promesse di Dio e attende la salvezza di Israele, l'angelo può venire da lei e chiamarla al servizio decisivo di queste promesse. Essa è una donna di fede»[3].

L’antifona della Liturgia del Venerdì Santo sembra riecheggiare nello sguardo, ricolmo della memoria della vita del Figlio fissata sulla retina dal rimpianto di una Madre dinanzi la morte ignominiosa per Croce, «o voi che passate per via, fermatevi e vedete se c’è un dolore simile al mio».

Un typos stilistico che -secondo l’iconografia bizantina- presenta la Madonna triste, al contempo pensosa, ma dallo sguardo dolcissimo ed estremamente serio che commuove per l’intensità e bontà.

«Maria “serbava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51). Ella che ben merita la lode evangelica “Donna davvero grande è la tua fede” (Mt 15,28), sa coniugare il passato delle meraviglie del Signore col futuro che Lui solo sa suscitare. Il suo cantico di lode, il Magnificat, esprime al passato (ha spiegato la potenza del suo braccio… Lc 1,51ss) le sue certezze per il futuro. La Madonna del Sabato Santo ci insegna a recuperare la memoria non solo come elemento di tradizione, bensì anche, e fortemente, come stimolo al progresso. Dovremmo chiederci alla scuola della sua fede ricca di speranza: in che maniera valorizzare, aggiornandole al presente, le grandi tradizioni del passato della chiesa? Penso al patrimonio di arte delle nostre chiese e mi interrogo su come potrebbe divenire mezzo di annuncio in un mondo che tanto sente il bisogno della Bellezza che salva»[4].

È quella che la teologia moderna definirebbe “la Vergine del Sabato Santo” e cioè Colei che –dopo la morte di Gesù Cristo- rappresenta lo stupore e l’attesa soterologica della risurrezione come diceva il Cardinal Martini «è in questo Sabato Santo che Maria veglia nell’attesa che risuscita dai morti. Per noi cristiani c’è però un altro “sabato” che è al centro e al cuore della nostra fede: è il Sabato Santo, incastonato nel Triduo Pasquale della morte e risurrezione di Gesù come un tempo denso di sofferenza, di attesa e di speranza»[5].

La mestizia di una Madre il cui Figlio è stato tratto dal mondo da un’umanità sclerocardica, ammorbata di egoismo e cattiveria, così brutale da accogliere la Luce.

Non è un caso che la Madonna vesta una tunica ed un copricapo di colore rosso, simbolo –nell’antichità- del lutto.

«Maria, Madre del Crocifisso, ci condurrà a ripensare la carità per la quale Egli si è consegnato alla morte per noi, la carità che è il distintivo del discepolo e da cui nasce la chiesa dell’amore»[6].

La Verità –che è il “Logos” e cioè il “Verbo-Messia”, “Salvatore” e “Maestro”- è stata frenata, troncata: non si è lasciato fluire il Suo Messaggio che è Speranza e Gioia, lo si è interrotto! Tutto sembra essere immoto. È il tempo della disperazione. Il dolore sembra sintetizzarsi sul Volto della Madre, Colei che ha lasciato che germogliasse dentro di Lei il Frutto della Speranza. Si fissa anche sullo sguardo quel cumulo di dolore e di disperazione.

«Essa è una donna di fede: “Beata sei tu che hai creduto”, le dice Elisabetta (cfr Lc 1, 45). Il Magnificat —un ritratto, per così dire, della sua anima— è interamente tessuto di fili della Sacra Scrittura, di fili tratti dalla Parola di Dio. Così si rivela che lei nella Parola di Dio è veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con la Parola di Dio; la Parola di Dio diventa parola sua, e la sua parola nasce dalla Parola di Dio. Così si rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio. Essendo intimamente penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare madre della Parola incarnata. Infine, Maria è una donna che ama. Come potrebbe essere diversamente? In quanto credente che nella fede pensa con i pensieri di Dio e vuole con la volontà di Dio, ella non può essere che una donna che ama. Noi lo intuiamo nei gesti silenziosi, di cui ci riferiscono i racconti evangelici dell'infanzia. Lo vediamo nella delicatezza, con la quale a Cana percepisce la necessità in cui versano gli sposi e la presenta a Gesù. Lo vediamo nell'umiltà con cui accetta di essere trascurata nel periodo della vita pubblica di Gesù, sapendo che il Figlio deve fondare una nuova famiglia e che l'ora della Madre arriverà soltanto nel momento della croce, che sarà la vera ora di Gesù (cfr Gv 2, 4; 13, 1). Allora, quando i discepoli saranno fuggiti, lei resterà sotto la croce (cfr Gv 19, 25-27); più tardi, nell'ora di Pentecoste, saranno loro a stringersi intorno a lei nell'attesa dello Spirito Santo (cfr At 1, 14)»[7].

 

 

Una risposta capace di spiegare il tumulto di queste domande io ce l’avrei. Se nel sabato santo il presente sembra oscillare su passato e futuro, è perché protagonista assoluta, sia pur silenziosa, di questa giornata è Maria.

«Dopo la sepoltura di Gesù, a custodire la fede sulla terra non è rimasta che lei. Il vento del Golgota ha spento tutte le lampade, ma ha lasciato accesa la sua lucerna. Solo la sua. Per tutta la durata del sabato, quindi, Maria resta l’unico puntoluce in cui si concentrano gli incendi del passato e i roghi del futuro. Quel giorno ella va errando per le strade della terra, con la lucerna tra le mani»[8].

Nella Basilica Patriarcale di Santa Maria degli Angeli, frazione di Assisi (in provincia di Perugia), l’icona della Vergine del Phileremo trova dunque una giusta collocazione[9].

Quando mi accinsi a visitare per la prima volta la Cittadina di Assisi ero un ragazzo. Fra i tanti altari uno colpì il mio sguardo, non capii -durante quella mia prima visita- solo una cosa: un altare così maestoso, con una piccola tavoletta dipinta all’interno. Compresi solo che doveva essere un emblema del culto e della devozione mariana cui la stessa chiesa è dedicata.

Da studente al magistero teologico tornai nella basilica che custodisce al suo interno, nell’incrocio del transetto -sotto al tamburo della cupola- la famosissima “Porziuncola”. Ora da antropologo rientro e mi accingo -in ginocchio- ad avvicinarmi con stupore all’icona venerata grazie alla conoscenza di alcuni frati francescani, del Sovrano Militare Ordine di Malta, di Suor Maria –greca di Rodi- e dell’Associazione dei Reduci Rodioti.

Dinanzi l’immagine di quello che ho rinominato il “Santuario custodente la Vergine di Tutte le Grazie”, opera del Professor Gismondi, con titubanza e grande esultanza contemplo la “Madonna dei Profughi”… Mi scorrono negli occhi scene di “esodi”, tragedie annunciate, sciagure, peripezie dei nostri giorni. Quante storie di esili forzati, come quella degli italiani trasferiti nell’isola di Rodi nel Novecento e poi cacciati nel secondo dopoguerra successivamente alla riconquista del Dodecaneso per mano greca.

Guardando questo altare ripenso alle molteplici scene bibliche che -come una sorta di flash back- affiorano come immagini Sacre Scritture e colpiscono l’animo imprimendosi nella mia memoria.

«Quando piena di santa gioia attraversasti in fretta i monti della Giudea per raggiungere la tua parente Elisabetta, diventasti l'immagine della futura Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della storia. Ma accanto alla gioia che, nel tuo Magnificat, con le parole e col canto hai diffuso nei secoli, conoscevi pure le affermazioni oscure dei profeti sulla sofferenza del servo di Dio in questo mondo. Sulla nascita nella stalla di Betlemme brillò lo splendore degli angeli che portavano la buona novella ai pastori, ma al tempo stesso la povertà di Dio in questo mondo fu fin troppo sperimentabile. Il vecchio Simeone ti parlò della spada che avrebbe trafitto il tuo cuore (cfr Lc 2,35), del segno di contraddizione che il tuo Figlio sarebbe stato in questo mondo»[10].

Ripenso alle parole di un grande profeta dei nostri giorni, Monsignor Tonino Bello -già Vescovo di Molfetta- che scrisse della Donna coraggiosa:   

«Sarà stato effetto di quel “non temere” pronunciato dall’angelo dell’annunciazione. Certo è che, da quel momento, Maria ha affrontato la vita con una incredibile forza d’animo, ed è divenuta il simbolo delle “madri-coraggio” di tutti i tempi.

E’ chiaro: ha avuto a che fare anche lei con la paura.

Paura di non essere capita. Paura per la cattiveria degli uomini. Paura di non farcela. Paura per la sorte di Gesù. Paura di rimanere sola... Quante paure!

Se ancora non ci fosse, bisognerebbe elevare un santuario alla “Madonna della paura”. Nelle sue navate ci rifugeremmo un po’ tutti. Perché tutti, come Maria, siamo attraversati da quell’umanissimo sentimento che è il segno più chiaro del nostro limite.

Paura del domani. Paura che possa finire all’improvviso un amore coltivato per tanti anni. Paura per il figlio che non trova lavoro e ha già superato la trentina. Paura per la sorte della più piccola di casa che si ritira sempre dopo mezzanotte, anche d’inverno, e non le si può dire niente perché risponde male. Paura per la salute che declina. Paura della vecchiaia. Paura della notte. Paura della morte...

Ebbene, nel santuario eretto alla “Madonna della paura”, davanti a lei divenuta la “Madonna della fiducia”, ciascuno di noi ritroverebbe la forza per andare avanti, riscoprendo i versetti di un salmo che Maria avrà mormorato chi sa quante volte: “Pur se andassi per valle oscura, non avrò a temere alcun male, perché sempre mi sei vicino... lungo tutto il migrare dei giorni”.

Madonna della paura, dunque. Ma non della rassegnazione»[11].

Certo è che chi sa custodire il “Mysterion” fu proprio Lei: la Donna del Sabato Santo quella che «nel venerdì santo, dopo la morte di Gesù, il discepolo Giovanni “prese con sé” (Gv 19,27), nel suo cuore e nella sua casa»[12]. Contemplando Maria giungiamo alla vera essenza delle cose: Lei che accolse nel Suo Grembo il vero Dio ci è Madre e ci dona la pace, Lei che ha patito tanto dolore.

«Così hai visto il crescente potere dell'ostilità e del rifiuto che progressivamente andava affermandosi intorno a Gesù fino all'ora della croce, in cui dovesti vedere il Salvatore del mondo, l'erede di Davide, il Figlio di Dio morire come un fallito, esposto allo scherno, tra i delinquenti. Accogliesti allora la parola: “Donna, ecco il tuo figlio!” (Gv 19,26). Dalla croce ricevesti una nuova missione. A partire dalla croce diventasti madre in una maniera nuova: madre di tutti coloro che vogliono credere nel tuo Figlio Gesù e seguirlo. La spada del dolore trafisse il tuo cuore. Era morta la speranza? Il mondo era rimasto definitivamente senza luce, la vita senza meta? In quell'ora, probabilmente, nel tuo intimo avrai ascoltato nuovamente la parola dell'angelo, con cui aveva risposto al tuo timore nel momento dell'annunciazione: “Non temere, Maria!” (Lc 1,30). Quante volte il Signore, il tuo Figlio, aveva detto la stessa cosa ai suoi discepoli: Non temete!»[13]

Sull’altare campeggia la pala di bronzo argentato –ed in alcuni punti dorata- che è stata ideata dallo scultore Tommaso Gismondi[14]. Lo storico dell’arte Velieri scrive che la poetica di Gismondi “sembra quella di un etrusco risvegliato d’improvviso”. Giuseppe Lanzi dice che le scene scolpite da Gismondi sono «chiare di per se stesse, si palesano agli occhi dell’osservatore con una icastica evidenza sono scolpite con virile vigore ed emergono con forza dal fondo delle formelle bronzee come tratte a colpi vigorosi di scalpello dalla roccia aspra dei monti Ernici, che circondano Anagni, patria e residenza di Gismondi, montagne alle quali egli spesso paragona l’opera sua... Per Gismondi lavorare in scultura vuol dire ancora e sempre comunicare ai propri simili -l’umanità- ciò che nell’intimo gli ispira la vita, la religiosità dell’esistenza, gli ideali, l’amore per tutti».

Basta uno sguardo attento alla Pala della Madonna del Fileremo per consentire pienamente con chi di Gismondi e della sua arte ha scritto quanto sopra abbiamo riportato. Nella silenziosa cappella, dove una volta si ammirava la stupenda tavola robbiana, che ora troneggia a ridosso dell’altare nella cripta della Basilica, ora i devoti venerano la Icona che peregrinò dalla Russia a Rodi e alla Porziuncola, e insieme ammirano un capolavoro di arte moderna, che non sfigura nel succedere sullo stesso luogo dov’era la mirabile opera d’arte antica. 

Anche da quest’opera ci rendiamo subito conto che Tommaso Gismondi è un artista che si sa imporre da sé, al di là di ogni presentazione che appare quasi superflua e banale. L’artista è umbro, nativo di Anagni, ove alcune sue opere sono state più volte esposte anche in permanenti. Un figlio dell’Umbria che canta la sua terra. Le sue opere possono solo catturare lo sguardo. Difatti le sue immagini colpiscono per la plasticità –non scevra di citazioni altissime- così simile ai classici della storia dell’arte italiana, seppure mai retorico ed accademico. Un “segno” che nasce dal gesto abile di chi sa dominare la materia e determinare uno spazio armonico, in cui –quasi in un equilibrio alchemico- possiamo leggere un’alternanza di pieni e vuoti composta con maestria in un perfetto rapporto armonico. Solo un simile artista avrebbe potuto aiutare a collocare la piccola ma intensa riproduzione della “Vergine di Tutte le Grazie”.

L’altare si presenta costituito da una grande lastra di bronzo divisa in tre campi o zone, ripartite in dodici riquadri, al centro dei quali è lo spazio per la Madonna. Risulta, in totale, un quadrato costituito da 13 formelle di cui quella centrale occupata dalla riproduzione dell’effige mariana. Ciò che colpisce è l’alternanza cromatica del legno dipinto –posto al centro- rispetto alla superficie plastica del bronzo argentato e dorato. E non si può che restar meravigliati –quasi rapiti- dalla vulcanica produzione di opere pluriformi, in cui la potenza plastica, fatta di un realismo mai orpelloso, allo stesso tempo fantasiosa e poetica, cattura subito ed incanta il visitatore. L’opera trasmette “bellezza e bontà”. Pare che l’artista abbia colto pienamente nel segno: ha sapiente espresso la “via pulchritudinis”. L’altare è nell’ispirazione e nella realizzazione in correlazione e discende legittimamente dalle migliori tradizioni artistiche italiane.

Occorre –mi sia concessa questa lunga citazione- riportare le parole di Padre Cesare Andolfi che così presenta il lavoro ideato dallo scultore «Tommaso Gismondi ha ereditato la plasticità soda e la vitalità di Michelangelo, di cui forse si sente un po’ allievo, cfr. “Il Crocifisso di Cosenza”; e vi unisce il sentimento, il sogno, l’umanità di Jacopo della Quercia, cfr. “La Deposizione”. In lui c’è anche qualcosa, e forse più che qualcosa, degli antichi padri etruschi e latini, cfr. “Gli innamorati ciociari”. È per questo che quando il sottoscritto vide e rivide l’annuale esposizione del Prof. Gismondi alle Sorgenti di Bonifacio in Fiuggi, non poté fare a meno di parlare con lui esprimendogli un proprio desiderio, un sogno cullato in cuore, ma che credeva irrealizzabile: far ideare ed eseguire proprio da questo autentico artista scultore un degno cimelio per incorniciare la nostra Madonna del Monte Fileremo... Ed ecco: il sogno si avvera e il desiderio è soddisfatto anche per la modestia delle richieste economiche dell’Autore. Il capolavoro è qui, alla ammirazione, alla lode di tutti, specialmente però di quanti vi vedono degnamente onorata la Madonna, che laggiù, nell’Isola cristianissima di Rodi, la onorarono, la amarono, come simbolo della loro fede e della loro speranza, come segno di bellezza e di un amore che è al di sopra delle cose umane e verso esse ispira e sospinge»[15].

All’interno dell’altare illustrato, di forma quadrata, si possono notare due serie estreme, la superiore e l’inferiore entrambe divise in cinque riquadri per registro, l’Artista ha proposto una fuga di scene, che presentano gli episodi più rilevanti e significativi della vita di Maria: dall’Annunzio dell’Incarnazione fino alla recentemente acclamata sua Maternità su tutta la Chiesa. I gruppi sono splendidi, materici e plastici –esprimenti “pathos”, corporei, e nello stesso tempo soffusi di misticismo e di grazia.

I due riquadri della zona di centro, ai lati dell’Icona, sono delle sintesi da grande maestro e ci vogliono ricordare due episodi della storia mariana e cristiana della custodia spirituale dell’Isola di Rodi. Sulla sinistra la formella presenta quando l’eroico Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme[16] spiega il Vessillo della Fede e chiama i suoi all’ultima resistenza, mentre i musulmani si fermano -terrorizzati da una visione celeste- e si danno alla fuga. Questa scena è l’illustrazione della battaglia avvenuta il 27 luglio 1480 quando Rodi -da lungo tempo assediata- è già caduta nelle mani dei Mussulmani, i quali però, a un tratto perdono il controllo dell’Isola. Rodi è libera grazie all’apparizione della Beatissima Vergine Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa, come confermano i Mussulmani stessi. Sulla destra possiamo ammirare l’Assedio dell’anno 1480 durante il quale i cristiani delle due Chiese riunite nella fedeltà al Concilio di pace e di unione, tenutosi a Firenze nel 1439 combattono fieramente Latini e Greci, resistendo al nemico nel nome del popolo cristiano. Il Turco invita disperatamente i Greci a ribellarsi ai Latini; ma il Metropolita greco risponde: «una sola fede ci affratella nel Nome di Cristo nostro Signore».

La storia del pensiero cristiano moderno registra nel Novecento il primo tentativo di Unità dei cristiani. Durante l’anno 1958 avvenne proprio a Rodi il primo Congresso del Consiglio Universale delle Chiese in cui viene proposta ed infine acconsentita da parte ortodossa la prima idea di intesa, che sfocerà poi nel cosiddetto “Ecumenismo”. Nell’anno 1964 Paolo VI, il Vescovo di Roma e Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa, vola alla volta di Gerusalemme per abbracciare il Patriarca Atenagora. Il papa durante il tragitto verso il suo grande fratello vuol sostare a Rodi «per lanciarmi all’abbraccio da qui -dice Paolo VI- dove è rifiorita la pianta dell’Ecumenismo, che ci porterà all’unità e alla pace per sempre».  

Qualche mese più tardi[17] il Papa invia una sua lettera autografa ai Capi delle principali Chiese rappresentate, dando un nuovo input ad una nuova entusiasmante “Idea unionistica”, che porterà il Patriarca a Roma e il Papa a Costantinopoli.

Nella scena che gremisce il pannello di destra e con il riquadro che perpetua lo storico abbraccio di Gerusalemme. Il racconto di questa formella è plasticamente detto fra i simboli di Rodi[18] ed in modo davvero superbo: con una sincerità ed un verismo impressionante, unitamente ad una semplicità e solennità dei classici.

Al centro campeggia l’immagine riproducente la Vergine di Tutte le Grazie, meglio noto come “Madonna del Phileremo”[19], campeggia al centro dell’altare a Lei dedicata nella Patriarcale Basilica di Santa Maria degli Angeli. La riproduzione è una piccola icona dipinta custodita, come gemma preziosa, in una sorta di anello, capolavoro progettato dal Prof. Tommaso Gismondi.

La Vergine del Monte Phileremo è però un’immagine storica: una “Madonna Profuga”, simbolo della cristianità cattolica e -nel Mare Egeo- della presenza nell’isola di Rodi. L’immagine è un multiplo della Vergine miracolosa custodita in uno dei più antichi templi del bacino mediterraneo esistente già nel secolo VIII o IX. Nel Santuario del Phileremo -così chiamato per custodire la “Vergine che ama il deserto”- in cui era venerata una Icona gerosolimitana sotto il titolo di “Panaghìa òllon ton chàriton”.[20]

«Nella notte del Golgota, tu sentisti nuovamente questa parola. Ai suoi discepoli, prima dell'ora del tradimento, Egli aveva detto: “Abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo" (Gv 16,33). “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14,27). “Non temere, Maria!” Nell'ora di Nazaret l'angelo ti aveva detto anche: “Il suo regno non avrà fine” (Lc 1,33). Era forse finito prima di cominciare? No, presso la croce, in base alla parola stessa di Gesù, tu eri diventata madre dei credenti. In questa fede, che anche nel buio del Sabato Santo era certezza della speranza, sei andata incontro al mattino di Pasqua. La gioia della risurrezione ha toccato il tuo cuore e ti ha unito in modo nuovo ai discepoli, destinati a diventare famiglia di Gesù mediante la fede. Così tu fosti in mezzo alla comunità dei credenti, che nei giorni dopo l'Ascensione pregavano unanimemente per il dono dello Spirito Santo (cfr At 1,14) e lo ricevettero nel giorno di Pentecoste. Il “regno” di Gesù era diverso da come gli uomini avevano potuto immaginarlo. Questo “regno” iniziava in quell'ora e non avrebbe avuto mai fine»[21].

Per una serie di vicende storiche, a volte estremamente tragiche[22], l’Immagine stupenda dell’icona venerata presso il Monte del Phileremo -tappa cruciale dei pellegrinaggi prima di entrare nei Loca Sancta- passò da Rodi a Viterbo, da Viterbo a Malta, da Malta a Mosca, da Mosca a Belgrado. Dopo mille peripezie parve scomparire. Nell’anno 1924 il Governo Italiano di Rodi la esigé al Governo di Mosca. L’allora ministro della Pubblica Istruzione, non potendo inviare l’originale antico, scomparso da Mosca nel 1918, mandò una icona che si diceva copia dell’originale ed antica venerata immagine mariana[23].

Ed è così che la Vergine di Tutte le Grazie, approdò in terra umbra, presso la Città del Poverello. Precedentemente l’attuale collocazione, la copia della Beata Vergine era custodita e venerata nella Cattedrale di Rodi sino all’anno 1925, e fu traslata nel ricostruito Santuario del Monte Phileremo nel 1931.

Questo multiplo è ora in Italia, nella Basilica Patriarcale della “Porziuncola” –luogo cardine della spiritualità francescana, ove San Francesco fondò il primo modello di comunità rispondente alla Regola francescana-. L’immagine oggi venerata in un altare della insigne chiesa assisana l’hanno portata e conservata i già Missionari dell’Egeo[24], ora è esposta alla venerazione e all’affetto dei suoi devoti, profughi come Lei, nonché ai molti visitatori e pellegrini che possono ammirare e onorare un’icona simbolo delle disavventure della vita e dell’odio fra i fratelli. Lei così inerme ci guarda e, prodiga di ogni grazia, ci ricolma delle benedizioni celesti, ci aiuta in questo pellegrinaggio terreno. Non banalmente –questo volto- pare la citazione della preghiera “Salve Regina” poiché Lei che in

Salve, Regina, Mater misericordiae, vita, dulcedo et spes nostra, salve.

Ad te clamamus, exules filii Evae.

Ad te suspiramus gementes et flentes in hac lacrimarum valle.

Eia ergo, advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte.

Et Jesum benedictum fructum ventris tui, nobis, post hoc exilium, ostende.

O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria!

Ora pro nobis, sancta Dei Genitrix.

ut digni efficiamur promissionibus Christi

Penso in preghiera -contemplando quello sguardo- alla sua struggente e spasmodica attesa del vedere il Suo Figlio risorgere. Il sabato diviene il tempo del grande silenzio. Certamente i primi discepoli vivono questo giorno[25] nel pianto, hanno ancora nel cuore le immagini dolorose e macabre della passione e della morte di Gesù. Con il decesso di Gesù si legge quasi il termine dei loro sogni messianici. «E anche il Sabato Santo di Maria, Vergine fedele, arca dell’Alleanza, madre dell’amore. Ella vive il suo Sabato Santo nelle lacrime ma insieme nella forza della fede, sostenendo la fragile speranza dei discepoli»[26]. Occorre riconoscere che anche noi siamo in un «cammino-pellegrinaggio ecclesiale attraverso lo spazio e il tempo, ed ancor più attraverso la storia delle anime» e che la Vergine Madre di Dio «è presente nella nostra storia»[27].

Maria non si è arresa, non ha lasciato cadere le sue braccia in un segno di sfaticamento, di sconforto, di arresa. Non ha mai abbassato lo sguardo, perduta nella rassegnazione. Non ha mai alzato le braccia in gesto di resa. Soltanto una volta si è arresa pronunciando il suo fiat e si è piegata al suo Signore e Dio consegnandosi e divendo arca della Salvezza e della Nuova Alleanza, Tempio di Misericordia e Consolazione partorendo, dopo averlo concepito, il Cristo, il Messia ossia l’Unto, il Figlio di Dio, l’Unigenito del Padre. Una Madonna del coraggio, che ci invita a cantare con forza il suo canto di lode:

«Magnificat anima mea Dominum,
et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo
quia respexit humilitatem ancillae suae.
Ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes
quia fecit mihi magna, qui potens est
et Sanctus nomen eius
et misericordia eius a progenie in progenies timentibus eum.
Fecit potentiam in brachio suo,
dispersit superbos mente cordis sui,
deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles;
esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes.
Suscepit Israel, puerum suum, recordatus misericordiae suae,
sicut locutus est ad patres nostros, Abraham et semini eius in saecula»
[28].

Maria è la donna Deipara, ed è il sostegno di noi cristiani. Non è un caso che la liturgia –a partire dal IV secolo- consenta ai catecumeni di fare la loro professione di fede precedentemente l’ammissione che avveniva difatti il giorno successivo. Nella Veglia di Pasqua il candidato al battesimo chiedeva quindi di essere ammesso a far parte della Chiesa[29].

Dio è amore (Gv 1,4) come sottolinea la moderna teologia e questo vuol dire riconoscere che Dio non è solitudine: non si può amare da soli, per amare bisogna essere almeno in due in un rapporto così ricco che sia aperto all’altro. In Dio c’è un rapporto così ricco e profondo: l’Amante, l’Amato e l’Amore. In ambito ebraico si diceva “Ani-wa-hou” ossia “io e Lui” intendendo il rapporto d’amore fra il poppolo di Israele e YHWH. Questa la speranza di Maria, Donna che danza con coraggio il suo infinito dolore iniziato forse la di sua presentazione al tempio e terminata sotto quella Croce in un urlo afono cadendo all’indietro fra le braccia del Giovane Discepolo, il Condilectus.

Dio-Amore è comunione dei Tre, il Padre il Figlio lo Spirito Santo, una relazione reale:  “essi sono Tre nel  dare e ricevere Amore nell’incontrarsi e nell’aprirsi all’amore”. E Maria ha accolto per prima la Santissima Trinità! Myriam ha ascoltato Dio e ha conosciuto, partorendolo, il Figlio.

«Da allora, ha sempre reagito con incredibile determinazione, andando controcorrente e superando inaudite difficoltà che avrebbero stroncato le gambe a tutti. Dal disagio del parto nella clinica di una stalla, all’espatrio forzato per sfuggire alla persecuzione di Erode. Dai giorni amari dell’asilo politico in Egitto, alla presa d’atto della profezia di Simeone greve di cruenti presagi. Dai sacrifici di una vita grama nei trent’anni del silenzio, all’amarezza del giorno in cui si chiuse per sempre la bottega del “falegname” profumata di vernici e di ricordi. Dalle strette al cuore che le procuravano certe notizie che circolavano sul conto di suo figlio, al momento del Calvario quando, sfidando la violenza dei soldati e lo sghignazzo della plebe, si piantò coraggiosamente sotto la croce»[30].

Perché la Madonna del Sabato Santo è Colei che con coraggio ed infinito amore ha sfidato il dolore. Non si è piegata. Non si è sconfortata. Ha combattuto. E la Vergine del Phileremo esprime questa forte temperanza, quest’animosità, questa sete di Amore. Ecco perché dispensatrice di Grazie!

Quella del Phileremo è una Vergine che esprime la prova! “Madre della prova” si potrebbe rappellare. Una prova terribile, la sua. Una sorta di deserto interiore[31]. E gli occhi –oramai privi di lacrime- della Vergine di Tutte le Grazie esprimono l’abbandono a Dio. L’atmosfera è immota, dominata da uno struggente –apparente- silenzio di Dio. Una prova senza scenografie e senza sconti sui prezzi della sofferenza, una prova che non tenta di farne un mito. La devozione popolare ha reso con strazianti immagini di Vergini Addolorata, ma qui non vi sono Madonne dalle Sette Spade. Qui dinanzi la copia della Vergine rodioti vi è una serafica calma presaga dell’attesa di Gesù Risorto. Le spade erano di venerdì. Ora Maria dimostra nel Sabato Santo la sua infinita potenza: è Colei che riluccica di bagliori cristici e ci dà la luce.

«Santa Maria, donna coraggiosa, tu non ti sei rassegnata a subire l’esistenza. Hai combattuto. Hai affrontato gli ostacoli a viso aperto. Hai reagito di fronte alle difficoltà personali e ti sei ribellata dinanzi alle ingiustizie sociali del tuo tempo.

Non sei stata, cioè, quella donna tutta casa e chiesa che certe immagini devozionali vorrebbero farci passare.

Perciò, Santa Maria, donna coraggiosa, tu che nelle tre ore di agonia sotto la Croce hai assorbito come una spugna le afflizioni di tutte le madri della terra, prestaci un po’ della tua Fortezza.

Nel nome di Dio, vendicatore dei poveri, alimenta i moti di ribellione di chi si vede calpestato nella sua dignità. Alleggerisci le pene di tutte le vittime dei soprusi. E conforta il pianto nascosto di tante donne che, nell’intimità della casa, vengono sistematicamente oppresse dalla prepotenza del maschio.

Santa Maria, donna coraggiosa, tu che sul Calvario, pur senza morire hai conquistato la palma del martirio, rincuoraci con il tuo esempio a non lasciarci abbattere dalle avversità. Aiutaci a portare il fardello delle tribolazioni quotidiane, non con l’anima dei disperati, ma con la serenità di chi sa di essere custodito nel cavo della mano di Dio. E se ci sfiora la tentazione di farla finita perché non ce la facciamo più, mettiti accanto a noi. Siediti sui nostri sconsolati marciapiedi. Ripetici parole di speranza. E allora, confortati dal tuo respiro, ti invocheremo con la preghiera più antica che sia stata scritta in tuo onore: “sotto la Tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio; non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, oh Vergine gloriosa e benedetta. Così sia”»[32].

Queste parole così alte e confortanti del compianto vescovo di Molfetta, Mons. Tonino Bello, ci aiutano a comprendere meglio questa magnifica Madonna, insieme a quelle di Papa Benedetto XVI

«così tu rimani in mezzo ai discepoli come la loro Madre, come Madre della speranza. Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!»[33]

A Rodi o nelle Isole dell’Egeo iniziarono a venerarla sotto quel titolo, che genera tanta fiducia, a pregarla come generosa sorgente di ogni bene, e a ringraziarla per la pluriforme esperienza della Mediazione di Lei, Maria, Madre di Dio e di tutti gli uomini.

Grazie Vergine del Phileremo, grazie “vera Zoodochò pighi”[34]!

Prof. ALESSIO VARISCO

Storico dell’arte e saggista

Direttore "Antropologia Arte Sacra"


 

[1] Benedictus Pp XVI, Spe Salvi. 2007. Roma. Libreria Editrice Vaticana, n.50.

[2] T. Bello, Maria donna dei nostri giorni. Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1993. p.90.

[3] Benedictus Pp XVI, Deus Caritas Est. 2005. Roma. Libreria Editrice Vaticana, n.41.

[4] C. M. Martini, La Madonna del Sabato Santo. Lettera pastorale 2000-2001. 2000, Milano, Centro Ambrosiano ITL, p. 39-40.

[5] C. M. Martini, op. cit. p.9.

[6] Ibidem, p.11.

[7] Benedictus Pp XVI, Deus Caritas Est. 2005. Roma. Libreria Editrice Vaticana, n.41.

[8] T. Bello, Op. Cit. p.91.

[9] Da quasi quarant’anni.

[10] Benedictus Pp XVI, Spe Salvi. 2007. Roma. Libreria Editrice Vaticana, n.50.

[11] T. Bello, Op. Cit. p.54.

[12] C. M. Martini, op. cit. p. 23.

[13] Benedictus Pp XVI, Op. cit., n.50.

[14] Tommaso Gismondi ha fatto molte sue opere ornano e completano monumenti e chiese, palazzi civici e sedi culturali ormai multiple in Italia, in Francia e nelle Americhe. L’artista è stato elogiato dalla stampa, persino in quotidiani come l’Osservatore Romano, e riviste di vario genere culturale e di settore; di lui si sono interessati molti volte critici qualificati che hanno espresso i giudizi incoraggianti, assimilandolo ai migliori rappresentanti dell’arte plastica italiana. Padre Cesare Andolfi, Ofm, così lo descrive: «ci sono creazioni sue, come per es. la Cena al naturale nel giardino di Santa Sabina a Roma, dalle figure così vive e potenti, così fantastiche e suggestive; come le Porte di Cattedrali: Sora, Lanciano, Paola, ecc. Pale d’Altare, come quella di Cosenza, che, viste una volta, ti fanno pensare per giorni e giorni, e non ti si staccano dalla mente».

[15] Padre Cesare Andolfi, Ofm.

[16] La “religione” degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, poi di Rodi ed infine di Malta, meglio noti come “Cavalieri di Malta”. Dal Trecento sono invece “Cavalieri di Rodi” a partire dall’anno 1309 il 15 agosto, dopo una campagna durata due anni, l'isola di Rodi si arrese ai Cavalieri, che ottennero anche il controllo di diverse isole limitrofe e quello dei porti anatolici di Bodrum e Kastellòrizo. Nel 1522 comunque gli Ospitalieri dovettero affrontare un tipo di esercito completamente diverso, quando 400 navi sotto il comando di Solimano il Magnifico sbarcarono sull'isola 200.000 uomini. Per fronteggiare questo esercito i Cavalieri avevano meno di 7.000 uomini e la protezione offerta dalle mura della città. L'assedio durò sei mesi, alla fine dei quali ai sopravvissuti fu concesso di abbandonare Rodi alla volta del Regno di Sicilia; in cambio i Cavalieri promisero di lasciare in pace i sudditi di Solimano. Si trattava di una promessa che non sarebbe stata mantenuta. A partire dal 1565 con la conquista definitiva dell’isola di Malta saranno detti “Cavalieri di Malta”. Oggi questa religione di cavalieri divisa in – è detta “Sovrano Militare Ordine di Malta” ed ha –dal punto di vista del diritto internazionale- soggetto giuridico all’ONU pur essendo extraterritoriale.

[17] Nel Secondo Prosinodo panortodosso.

[18] La rosa, il cervo, la croce ottagona (in merito a quest’ultimo simbolo per approfondimenti si rimanda a: A. Varisco, La croce ottagona. Monza, Técne Art Studio, 2007.

[19] “Phileremo” dal greco letteralmente “amante del deserto”.

[20] “Panaghìa òllon ton chàriton” letteralmente dal greco significa: “Madonna di tutte le grazie”.

[21] Benedictus Pp XVI, Op. cit., n.50.

[22] Per ulteriori approfondimenti: A. Varisco, La Madonna del Fileremo ed il culto della Vergine di Tutte le Grazie del Sovrano Militare Ordine di Malta, 2007.

[23] Molto probabilmente il multiplo assisano è una delle copie fatta realizzare dallo zar intorno all’anno 1800.

[24] I Missionari dell’Egeo erano i Frati Minori della Provincia Serafica dell’Umbria, oggi appartiene al Patriarcato Latino di Gerusalemme la cura della custodia degli edifici di culto cattolici in Rodi.

[25] Il Sabato è in ambito semita il “giorno del riposo”.

[26] C. M. Martini, op. cit.

[27] Giovanni Paolo Pp II, Redemptoris  Mater. n 25

[28] Lc, 1,46-55.

[29] A partire dal XVI secolo, con l’applicazione del Concilio Tridentino, si cominciò -con un’anticipazione della Vigilia- alla mattina del Sabato Santo. Uno dei motivi del trasferimento della prassi liturgica alla mattina, di ciò che accadeva normalmente la sera, è dipeso dal fatto che non era raccomandabile starsene fuori casa la notte. Questa anticipazione al mattino del Sabato, è durata fino agli ultimi anni Cinquanta del XX secolo. Difatti si “scioglieva” la “Gloria” verso le ore 10-11 del mattino del sabato mediante il suono delle campane che venivano “sciolte” dai “legami” messi la sera del Giovedì Santo. Poi con la riforma liturgica Conciliare, dalla seconda metà degli anni Sessanta dello scorso secolo, tutto è ritornato come alle origini e il Sabato ha ripreso il significato del giorno della meditazione e della penitenza anche a livello liturgico. Questa icona drammatica e così carica di pathos ci richiama alla liturgia antica così presaga di evocazioni mistiche e solenni citazioni spirituali. Lo sguardo di Maria è solenne, gli abiti rossi a lutto.

L’oscurità oggi nelle chiese è totale -non vi sono celebrazioni liturgiche (si pensi che tutta la Quaresima Ambrosiana è dominata dal “Venerdì a-liturgico” che è dilatazione del venerdì Santo a tutti i venerdì quaresimali e non si celebrano eucarestie)- né Sante Messe; è l’unico giorno dell’anno –nella Liturgia Latina- che non si può ricevere la S. Comunione, tranne nel caso di Viatico per gli ammalati gravi.

Tutto è silenzio nell’attesa dell’evento della Resurrezione. Quanto tempo restò sepolto nel sepolcro Gesù? Furono tre giorni non interi, dalla sera del Venerdì (dopo l’ora nona, ossia dopo le tre pomeridiane) sino all’alba del giorno dopo la festa del Sabato ebraico, che oggi è la Domenica di Pasqua, ma che per gli Ebrei era il primo giorno della settimana; in tutto durò circa 40 ore.

Bisogna dire che con la liturgia odierna, la “Veglia Pasquale” è prevista in buona parte delle nostre chiese e cattedrali, con inizio verso le 22,30-23 del sabato; ma la “Veglia”, madre di tutte le Veglie celebrate dalla Liturgia cristiana, pur iniziando nell’ultima ora del sabato, di fatto appartiene alla Liturgia solenne della Pasqua.

Durante la “Veglia” viene benedetto il fuoco, il cero pasquale -simbolo della risurrezione pasquale sulla luce dell’oscurità della morte: Cristo ha sconfitto la morte, "Cristo risuscitato da morte non muore più; la morte più non lo dominerà" (Rm 6,9)-, l’acqua battesimale; cercando di far coincidere il canto del ‘Gloria’, con il suono delle campane a festa, verso mezzanotte. In altre zone la “Veglia” inizia verso mezzanotte e quindi la liturgia eucaristica prosegue nelle prime ore notturne.

[30] T. Bello, Op. Cit. p.55.

[31] San Giovanni della Croce avrebbe potuto dire che era il “todo y nada”.

[32] T. Bello, Op. Cit. p.55.

[33] Benedictus Pp XVI, Op. cit., n.50.

[34] Letteralmente dal greco “Fontana della Vita”.

 

 

 

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